martedì 19 gennaio 2016

Mario Calabresi: “Dove c’è intolleranza c’è fascismo”


"Coltivare la memoria e riscoprire il valore della Resistenza oggi 

per mantenere vivo il fiore della democrazia"


Mario Calabresi



Parla il nuovo direttore di “Repubblica”.
Quell’ incontro mancato con Enrico Berlinguer.
Rimettere al centro i diritti umani.
L’importanza dell’innovazione digitale per i periodici


Mario Calabresi, giornalista e scrittore, figlio del commissario Luigi Calabresi, assassinato nel 1972, è stato alla guida della Stampa dal 2009. Da oggi, 15 gennaio 2016, è il nuovo direttore del quotidiano la Repubblica. Tra i suoi libri ricordiamo Spingendo la notte più in là, dedicato alle vittime del terrorismo. Il titolo è tratto dal verso di una poesia di Tonino Milite, poeta e pittore, nuovo compagno di Gemma Capra Calabresi, scomparso lo scorso dicembre 2015.

Mario Calabresi, il concetto di pace è per lei quasi una memoria di famiglia…
La mia prima volta a una manifestazione fu per la pace. Mi ci portò Tonino Milite. Era apparso nella mia vita poco prima che iniziassi ad andare a scuola. Avevo perso mio padre a due anni e mezzo. E fu Tonino ad accompagnarmi il primo giorno di scuola. Era pittore e maestro elementare, e mia madre, anche lei insegnante, lo aveva conosciuto proprio a scuola. Era un convinto pacifista e nel periodo delle tensioni per gli euromissili andammo a una manifestazione in centro a Milano, a Porta Castello. Rimasi impressionato dall’enorme moltitudine di persone in piazza. C’erano anche tantissime bandiere di partiti e sindacati e non sapevamo dove metterci: “Se non sei di un partito e vuoi manifestare per la pace, per un valore universale – mi disse – devi sfilare per forza sotto una di queste bandiere”. Facemmo tutto il percorso al fianco del corteo e, tornati a casa, cominciò a dire che bisognava fare una bandiera diversa da tutte le altre. 

Pensò all’arcobaleno, composto di tutti i colori, poi scoprì che già altri avevano accostato l’iride a un segno di pace. Allora brevettò una bandiera con il lato esterno diagonale, non rettangolare. Una forma diversa per dire che il vessillo della pace non era come quello di un partito o di uno Stato. Non doveva essere un simbolo divisivo, distintivo, che rappresentasse cioè solo una parte di persone, ma l’espressione di una volontà universale. In seguito partecipammo a una manifestazione dove c’era Enrico Berlinguer e Tonino avrebbe voluto sollevarmi oltre le transenne per andare a porgere la bandiera arcobaleno al Segretario. Però io mi vergognavo e non ci sono voluto andare. Ancora oggi me ne pento perché credo sarebbe stata un’occasione interessante: io, bambino, che consegno la bandiera a questa persona simbolo della sinistra italiana. Tonino Milite me lo ricordava sempre: “Mannaggia, non hai avuto il coraggio di andare da Berlinguer!”.
Dopo cosa accadde?
Dal prototipo della bandiera Tonino tirò i primi mille esemplari. La Federazione milanese del Pci ne prese alcune ed ebbero un certo successo. Il Pci milanese decise di riprodurle e purtroppo, secondo me, in una maniera un po’ miope: se le stampò in proprio, senza coinvolgere Tonino. Non c’era nulla da guadagnare, per carità. Ma tant’è: con gli stessi colori, si tornò al formato tradizionale e fu aggiunta la scritta “PACE”. Ricordo che lui contestò la nuova versione, sia perché la parola dall’altra parte si leggeva al contrario, sia perché scrivendola in italiano si ri-nazionalizzava il concetto: “L’arcobaleno è di tutti, in questo modo diventa nuovamente solo di un popolo”. Era proprio dispiaciuto che si fosse tornati a ragionare nella logica di una sola lingua, di un solo Paese. 
Quella bandiera della pace era stata ideata un po’ proprio per lei…

Nacque perché Tonino voleva dare a un figlio la possibilità di sfilare per la pace senza andare sotto le bandiere di partito. E per il senso che gli aveva dato sarebbe stata bene alle manifestazioni dopo le stragi di Charlie Hebdo e del Bataclan. Lo spirito era esattamente quello del superamento delle contrapposizioni e delle divisioni: nazionali, etniche, religiose. Per affermare che la pace è un diritto.
 In questo momento, per timore del terrorismo Isis, viviamo continuamente sotto scorta dell’esercito. Saremo “blindati” per sempre?
Da una parte va compresa la paura delle persone e occorre dare risposte in termini di sicurezza, dall’altra però bisogna abituare le persone al dialogo. L’unico modo per sconfiggere la paura, il terrorismo e soprattutto le culture che lo generano è continuare a vivere. Altrimenti ci arrendiamo. I sondaggi di questi giorni devono far riflettere: molte persone dicono di rinunciare a uscire la sera per la paura. È un segnale devastante.
Dopo le ultime grandi manifestazioni globali del 2003, oggi è possibile un nuovo movimento internazionale per la pace?
Allora c’era la sensazione di una guerra non giustificata e pretestuosa. Questo aveva mobilitato le coscienze. Oggi la società occidentale è impaurita dal terrorismo. Quello che si nota oggi – e lo scriverò nel mio primo editoriale su Repubblica – è una stanchezza nei confronti della pace e della difesa dei diritti umani. Questi temi vanno assolutamente rimessi al centro del dibattito delle idee. Per esempio, l’Arabia Saudita mette a morte quarantasette persone perché hanno manifestato pacificamente per la libertà di espressione. In Occidente c’è qualche timida protesta, punto. Un avvocato cinese molto noto viene condannato a tre anni di carcere, togliendogli per sempre il diritto a esercitare la professione, solo perché ha pubblicato quattro tweet per chiedere libertà di pensiero e democrazia. In Europa e in Occidente abbiamo percorso un cammino secolare in fatto di diritti umani e rischiamo di cancellarlo per la crisi economica: pur di strappare un contratto in più, passiamo sopra a tutto e annientiamo le conquiste della nostra cultura. 
14 gennaio 1976: esce il primo numero di la Repubblica
Quali sono i suoi progetti per la Repubblica?
Sento molto la responsabilità e il peso di questo incarico, dopo due direttori che hanno guidato il giornale per vent’anni ciascuno. Innanzitutto c’è bisogno di comprendere i nuovi modi con cui le persone si informano. Oggi la maggioranza dei lettori di Repubblica non legge il quotidiano sulla carta bensì sul telefonino. In Italia troppo a lungo si è pensato che non fosse serio trasferire dalla carta i temi più impegnativi e che invece potessero viaggiare on line le notizie più semplici, più veloci e leggere, per così dire, come l’intrattenimento informativo. Penso invece che il digitale, primo o unico strumento per moltissime persone, debba essere un luogo dove c’è anche qualità, approfondimento, valore. Quindi serve anche una maggiore distinzione tra digitale e carta.
 Cambiando il modo di raggiungere i lettori, cambieranno i contenuti?
Ritengo che l’opinione pubblica sia stanca di vedere i fatti interpretati semplicemente sulla base delle coordinate destra-sinistra o governo-opposizione. Ci si schiera molto di più su temi quali innovazione-conservazione e, soprattutto, sui diritti. Un esempio sono le unioni civili e i matrimoni gay. In Italia stiamo ancora discutendo sulle coppie di fatto. In Irlanda, addirittura nella cattolicissima Irlanda, facendo riferimento agli schemi tradizionali si sarebbe potuto pensare che fosse impossibile approvare i matrimoni gay. Invece è successo. La divisione tra favorevoli e contrari non rispecchia – almeno, non del tutto – gli schieramenti tradizionali ma attraversa la società in modi diversi e nuovi che sul giornale vorremmo esplorare.
La società italiana si è molto trasformata, ci sono altri diritti da riconoscere con urgenza?
L’elenco stesso dei diritti va aggiornato. È un tema che ho molto a cuore. Ed esistono diritti antichi e già tutelati, come per esempio il diritto al lavoro, che vanno nuovamente definiti: oggi intere aree di popolazione ne vengono progressivamente escluse, dai giovani ai precari, dalle donne agli inattivi e sfiduciati. E poi ci sono nuovi diritti da tutelare, quali il diritto alla salute e anche ai servizi, come la mobilità. Le persone sono ancora interessate al dibattito tra i partiti – vedi Alfano che litiga con Renzi – ma lo sono molto di più sui temi che incrociano le loro vite: la scuola, il lavoro, l’assistenza sanitaria, i trasporti. Penso che oggi sia questa la sfida, anche del giornalismo.
C’è ancora un senso nel parlare di fascismo e antifascismo?
Certo, se li si interpreta come tolleranza e intolleranza. Il fascismo esiste ancora dove risorgono forme di intolleranza contro il diverso, contro il pensiero degli altri, contro il dibattito e il confronto, contro le espressioni e le parole di dissenso. Spesso si tratta di forme estreme di populismo e in Europa ne esistono molti casi. L’antifascismo per me, oggi, è soprattutto opporsi all’ intolleranza.
Natalia Marino 




Moie, martedì 19 gennaio 2016