"Coltivare la memoria e riscoprire il valore della Resistenza oggi
per mantenere vivo il fiore della democrazia"
La protesta
in una città piegata dai bombardamenti e dalla fame: 164 operai furono
arrestati
Sono state le fabbriche torinesi il cuore degli scioperi del marzo del 1943
nei quali si sono intrecciate rivendicazioni economiche e opposizione al regime
diventando di fatto la prima mobilitazione di massa e l’avvio della Resistenza.
Settant’anni fa a Torino - in una città la
cui classe operaia mai è stata fascista, piegata dai bombardamenti, dalla fame,
dalla paura - si verificò «il primo atto di resistenza di massa di un popolo
assoggettato a un regime fascista autoctono» come lo storico inglese Tim Mason
ha definito gli scioperi del marzo del ’43.
Identità collettiva
Nell’immediato dopoguerra quel moto
diventerà mito e monumento. Ma sicuramente - come ha analizzato Claudio Pavone
- «sotto un regime interno che aveva nella sua storia e nella sua ispirazione
più profonda il divieto dello sciopero gli scioperi esaltano il carattere di
affermazione della identità collettiva, di strumento di liberazione, di
scoperta dell’azione diretta».
La storia del loro svolgimento è stata
narrata all’infinito da testimoni diretti come Umberto Massola - che di quei
giorni diverrà l’esegeta anche con il suo libro «Marzo’43, ore 10» - Leo
Lanfranco, Vito Damico e tanti altri ed è tuttora ammantata da un velo di
leggenda. Lo sciopero viene fissato per venerdì 5 marzo 1943: la sospensione
del lavoro deve avvenire alle 10, al suono, come ogni giorno, della sirena
d’allarme.
La sirena non suona
Ma nel cuore industriale della città, a
Mirafiori, la sirena non suona perchè la direzione è stata preavvertita. Ma il
contrattempo non ferma la lotta. All’officina 19 la fermata parte comunque
pochi minuti dopo. Nel settore aeronautico della Fiat Augusto Bazzani racconta:
«Il segnale non è azionato, ma gli operai smettono di lavorare e vanno verso
l’uscita. Il caporeparto li richiama, non è degnato neppure di uno
sguardo».
E alla Fispa Carlo Peletto narra: «Noi
abbiamo scioperare l’8 marzo. Non avevamo la sirena; si decise che il segnale
lo avrei dato io fermando il mio tornio e girandomi verso i compagni di lavoro.
Fermai le macchine, mi girai e incrociai in un sol colpo gli occhi di tutti che
mi puntavano: dopo pochi secondi tutte le macchine erano ferme».
Un evento simbolico
In realtà - come ricordano molti storici -
la grande capacità dell’organizzazione comunista fu quella di veicolare in
città la notizia della riuscita della manifestazione di Mirafiori, simbolo
della resistenza operaia, tanto che il lunedì successivo, 8 marzo, lo sciopero
riprese e si diffuse in gran parte delle fabbriche torinesi. E poi come per
osmosi raggiunse il resto del Piemonte e arrivò a Milano.
Come ricorda Roberto Finzi nel suo libro
«Marzo 1943 - Un seme della Repubblica fondata sul lavoro» (Clueb, Bologna)
quell’anno è un anno si svolta: il 2 febbraio i sovietici vincono a
Stalingrado, il 9 febbraio gli americani a Guadalcanal. Le sorti della guerra
«si invertono in Europa come in Oriente».
La caduta del fascismo
E per l’Italia sarà l’anno della caduta del fascismo, dell’invasione
nazista, della repubblica di Salò. E della nascita della Resistenza di cui
sicuramente gli scioperi del marzo - che dureranno fino a metà mese e
coinvolgeranno secondo una ovvia stima per difetto del regime 40 mila operai -
sono l’inizio. Gli operai chiedono una indennità di carovita e il pagamento a
tutti delle 192 ore di sfollamento. Rivendicazioni economiche che si
intrecciano ormai alla ripulsa della guerra e del fascismo. Un intreccio di
spontaneità e di organizzazione comunista come analizzato da Claudio
Dellavalle. Scioperi che vengono pagati com 164 arresti e 37 deferiti al
tribunale speciale. Ma il fascismo ha ormai imboccato la sua lunga agonia.
Moie, Lunedi 14 marzo 2016
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